Nella narrativa tradizionale, gli scrittori hanno trattato il pensiero come una forma di discorso che il personaggio rivolge a se stesso in forma diretta o indiretta. In tempi recenti, tuttavia, la narrativa ha utilizzato anche tecniche più particolari per rappresentare i pensieri e i moti psichici dei personaggi. Eccone alcune.
Il soliloquio
Il soliloquio è la trascrizione diretta delle parole che un personaggio rivolge a se stesso o a un interlocutore immaginario, in assenza di interlocutori reali. In questo modo, i pensieri sono espressi a parole, in uno stile che evoca i modi espressivi tipici del personaggio stesso. Nei Promessi sposi i soliloqui di don Abbondio sono molto frequenti, perché segno dell’isolamento psicologico del personaggio. Anche Renzo ricorre talvolta al soliloquio, quando, in fuga da Milano, rettifica animosamente il racconto del tumulto udito in un’osteria dalla bocca di un mercante:
Andava dunque dove la strada lo conduceva; e pensava.
— Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei compagni che mi stavano a far la guardia! Pagherei qualche cosa a trovarmi a viso a viso con quel mercante, di là dall’Adda (ah quando l’avrò passata quest’Adda benedetta!), e fermarlo, e domandargli con comodo dov’abbia pescate tutte quelle belle notizie. Sappiate ora, mio caro signore, che la cosa è andata così e così, e che il diavolo ch’io ho fatto, è stato d’aiutar Ferrer, come se fosse stato un mio fratello; sappiate che que’ birboni che, a sentir voi, erano i miei amici, perchè, in un certo momento, io dissi una parola da buon cristiano, mi vollero fare un brutto scherzo; sappiate che, intanto che voi stavate a guardar la vostra bottega, io mi faceva schiacciar le costole, per salvare il vostro signor vicario di provvisione, che non l’ho mai nè visto nè conosciuto. Aspetta che mi mova un’altra volta, per aiutar signori….
(A. Manzoni, I Promessi sposi, cap. VII)
Il monologo interiore
Il monologo interiore è la trascrizione fedele dei pensieri del personaggio, riportati in stile indiretto libero, ossia senza la mediazione di verbi di pensiero e senza l’uso delle virgolette. Con questa tecnica il narratore lascia spazio alla “voce” del personaggio, rinunciando a ogni forma di mediazione:
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.
(I. Svevo, La Coscienza di Zeno, cap. III)
Il flusso di coscienza
Il flusso di coscienza: spesso indicato con l’espressione inglese stream of consciousness, fu adottato per la prima volta dallo scrittore irlandese James Joyce (1882-1941) e consiste nel riportare i pensieri del personaggio così come nascono nella sua mente, cercando di riprodurne la libera associazione di pensieri, impressioni ed emozioni pre-verbali. L’intervento del narratore è in apparenza ridotto al minimo, in quanto egli non interviene neppure per ordinarne l’impressione, ma spesso riporta pensieri slegati tra loro, senza rapporti sintattici e senza punteggiatura:
[…] due e un quarto che ora bestiale mi dà l’idea che in Cina si stanno alzando a quest’ora e si pettinano i codini per la giornata tra poco le monache suoneranno l’angelus non c’è nessuno che vada a disturbare i loro sonni se non qualche prete per le funzioni della notte la sveglia di quelli accanto al primo chicchirichì si fa uscire il cervello a forza di far fracasso guardiamo un po’ se riesco ad addormentarmi 1 2 3 4 5 che razza di fiori son quelli che hanno inventato come le stelle o la carta da parati di Lombard street era molto più carina quel grembiale che m’ha dato assomigliava un po’ solo che l’ho portato solo due volte meglio abbassare la lampada e provare ancora in modo da alzarsi presto voglio andare da Agnel là vicino a Findlater e farmi mandare dei fiori da mettere per casa nel caso lo portasse qui domani cioè oggi no no il venerdì porta male […]
(J. Joyce, Ulisse, parte III 18)
Un pensiero su “Come rappresentare i pensieri e le parole dei personaggi”
Nel riportare il pensiero dei personaggi, di una narrazione ritengo che la cosa migliore sia quella di adottare le medesime forme di interpunzione che si usano nei dialoghi, con la sola differenza che nei pensieri, anziché usare le caporali è bene usare le doppie virgolette alte.
Naturalmente, il ruolo del verbum dicendi (la voce narrante) è decisivo per far capire che si tratta di un pensiero..
Quindi,, ad esempio, nel caso in cui il verbum dicendi introduca il pensiero, occorre, al pari dei dialoghi, mettere i due punti e aprire le virgolette, riportare, con la prima lettera maiuscola, il pensiero dei personaggio è poi chiudere il tutto con le necessarie altre virgolette seguite dal punto fermo..